L’esclusione dalla successione di un soggetto che, in mancanza di testamento, sarebbe chiamato ad ereditare.
E’ permesso ad un soggetto fare in modo che un parente non gradito non riceva niente a titolo di successione? E se questo parente fosse il figlio o il coniuge? Quali effetti ha una simile disposizione?
Alla morte sono chiamati a succederci determinati soggetti, secondo le quote previste dalla legge.
Il mezzo per regolare la successione, adeguandola alla nostra volontà, è unicamente, giusto il divieto dell’art. 458 c.c., il testamento, che, per il principio di equivalenza delle forme testamentarie, può essere olografo (scritto di pugno, datato e sottoscritto dal testatore medesimo), pubblico (per atto di Notaio) e segreto.
Attraverso tale mezzo il testatore, che tema possa succedergli un soggetto all’indirizzo del quale avverte un senso di riprovazione, può scegliere di escluderlo, così consegnando la propria eredità a tutti i successibili, ma con la esclusione di quello.
Tale esclusione può effettuarsi, sicuramente, attribuendo per testamento l’intero patrimonio in favore di altri, così che detto soggetto sia pretermesso.
Pretermissione e diseredazione sono diverse quanto ad efficacia:
- La pretermissione è una conseguenza della volontà del testatore che attribuisce le sue sostanze interamente ad altri soggetti;
- La diseredazione è una disposizione a carattere negativo che manifesta la volontà di esclusione di un determinato soggetto.
Le due figure si possono anche combinare (anzi devono essere combinate per la più risalente giurisprudenza), ma anche tale combinazione non fa certo perdere le peculiarità di caratteristiche.
Per capirle partiamo da un caso concreto:
Supponiamo che Tizio istituisca erede universale l’estraneo Mevio, aggiungendo di voler diseredare il proprio fratello Sempronio.
In un caso del genere, parrebbe inutile la diseredazione, ferma la validità del testamento. La situazione, però, muta significativamente se, successivamente alla confezione di questo testamento, Mevio premuoia a Tizio. Alla morte di Tizio si pone un evidente problema successorio. Supponendo, infatti, che non vi sia sostituzione, che non si possa dare, come è ovvio, rappresentazione o accrescimento, appar chiaro che la successione deve essere devoluta secondo le norme sulla successione legittima. Il che lascerebbe intendere che alla successione di Tizio debba essere chiamato il parente più prossimo, nella specie il fratello Sempronio. In questa ipotesi, allora, la disposizione di diseredazione, apparentemente inutile, acquista un’efficacia inattesa evitando che a Tizio possa succedere il fratello.
Ciò significa, dunque, che anche nei casi in cui il testatore istituisca erede universale un determinato soggetto, non è detto che la menzione di aver escluso e voler escludere altri dalla propria successione sia sempre destinata alla irrilevanza.
L. FERRI: «La differenza tra pretermissione è diseredazione non è soltanto teorica, in quanto il fratello preterito conserva la veste di successibile, e può succedere in concreto, solo che l’erede istituito non venga alla successione, per premorienza, rinunzia o indegnità».
Appare dunque palese che la sola pretermissione non può risultare strumento sufficiente ad assicurare il risultato voluto dal testatore: nel caso in cui l’erede istituito (cioè uno di quelli ai quali il testatore ha attribuito una parte o tutti i suoi beni) non possa o non voglia accettare, può darsi che si apra la successione legittima e, pertanto, l’escluso non diseredato possa ereditare.
Per pacifica opinione dottrinaria e giurisprudenziale, pretermesso può ben essere un legittimario, ovvero uno di quei soggetti legati dal testatore dal vincolo di sangue della famiglia nucleare (figli e, in mancanza di questi, genitori) o di coniugio (coniuge, anche se legalmente separato, o unito civilmente, ma non il convivente).
Il testamento che non riconosca alcunché ad uno di detti soggetti, violando le quote di riserva, è pacificamente valido ed efficace.
Il legittimario pretermesso potrà infatti sempre reagire a detta violazione esperendo l’azione di riduzione, che è vero ed intangibile rimedio per il rispetto della quota riservata.
Ci si chiede, allora, se la volontà del testatore possa efficacemente manifestarsi mediante una disposizione a carattere negativo tendente alla mera esclusione del soggetto dalla sua successione ovvero se sia valido il testamento che reciti:
“Escludo dalla mia successione mio nipote Enrico”
OPPURE
“Diseredo mia figlia Paola”.
Vi sono ragioni per le quali un soggetto diseredato debba avere una tutela differente da quello pretermesso?
Invero la clausola di diseredazione non ha avuto vita facile, essendosi anche negata la possibilità che la stessa costituisse valido contenuto testamentario.
L’art. 587 c.c., infatti, stabilisce che il testamento è un atto revocabile con il quale taluno dispone, per il tempo in cui avrà cessato di vivere, di tutte le proprie sostanze o di parte di esse.
Il giudizio di invalidità della clausola di mera diseredazione postulerebbe quindi che alla espressione ‘‘dispone’’, contenuta nell’art. 587 c.c., si assegni il significato di ‘‘attribuisce’’, basandosi sulla circostanza che, diseredando, il testatore non compie nessuna attività attributiva ma una mera esclusione dalla categoria dei successibili.
A ben vedere, però, escludere equivale non all’assenza di un’idonea manifestazione di volontà, ma ad una specifica manifestazione di volontà, nella quale, rispetto ad una dichiarazione di volere (positiva), muta il contenuto della dichiarazione stessa, che è negativa.
In ogni caso, l’art. 587 c.c., nel definire il testamento come l’atto con il quale taluno dispone, per il tempo in cui avrà cessato di vivere, di tutte le proprie sostanze o di parte di esse, non escluderebbe affatto che la libertà di disporre delle proprie sostanze riconosciuta al testatore, possa manifestarsi anche in un «non volere disporre» di esse in favore di uno o più soggetti determinati. La decisione relativa alla mancata attribuzione equivarrebbe, quindi, non già all’assenza di una idonea manifestazione di volontà, bensì alla manifestazione di una ben precisa volontà.
La clausola di diseredazione integra un atto dispositivo delle sostanze del testatore, costituendo espressione di un regolamento di rapporti patrimoniali, che può includersi nel contenuto tipico del testamento.
Il ‘‘disporre’’ di cui all’art. 587 c.c., co. 1, può dunque includere, non solo una volontà attributiva e una volontà istitutiva, ma anche una volontà ablativa e, più esattamente destitutiva.
Ciò è stato riconosciuto anche dalla Suprema Corte nella sentenza 25 maggio 2012, n. 8352, per la quale se si riconosce che il testatore possa disporre di tutti i suoi beni escludendo in tutto o in parte i successori legittimi, non si vede per quale ragione non possa, con un’espressa e apposita dichiarazione, limitarsi ad escludere un successibile ex lege mediante una disposizione negativa dei propri beni.
Viene dunque superato l’orientamento (Cass.Civ. sentenza n. 1458/1967) per cui era necessario l’istituzione ex asse di altri soggetti, anche in via implicita, ed ammessa la clausola di diseredazione solo se fondata sull’equivalenza tra l’esclusione e l’istituzione implicita di altri.
Se diseredare è un’esplicazione dell’attività dispositiva del testatore, mediante la quale mediante la quale il testatore regola la sua successione scegliendo – per esclusione – chi tra i successibili ex lege gli debba succedere, allora la stessa è valido contenuto testamentario, ovvero atti di disposizione del patrimonio ex Art. 587 c.c.
La questione si complica ulteriormente quando il diseredato sia un legittimario.
Per costante orientamento vi sarebbe un principio di ordine pubblico per il quale l’autonomia testamentaria dovrebbe cedere il passo alla tutela della famiglia nucleare e, pertanto, una simile disposizione sarebbe inequivocabilmente nulla quando l’espressamente escluso sia un legittimario.
Espressione di tale principio sarebbe l’articolo 549 cc che vieta l’imposizione di pesi e condizioni sulla quota d’eredità necessaria.
Sono nulli i pesi e le condizioni imposti sulla quota di legittima e, pertanto, sarà ugualmente nulla la disposizione che non solo limiti direttamente la detta quota ma che direttamente escluda.
Per recente dottrina questo richiamo risulta inconferente.
La clausola di diseredazione, infatti, impedisce sul nascere il verificarsi della delazione, la quale costituisce il presupposto di operatività del divieto dei pesi e delle condizioni, disposizioni che possono attanagliare e oberare solo le clausole attributive.
Il legittimario diseredato, come il pretermesso, all’apertura della successione non è erede e pertanto non può operare la nullità di cui al citato articolo perché non ha una quota di spettanza.
La qualità ereditaria gli spetterà solo (e ciò non è nemmeno più unanimemente riconosciuto) al vittorioso esperimento dell’azione di riduzione, azione che è per lui disponibile, una volta apertasi la successione, non solo mediante rinuncia o accordo, ma anche attraverso la mancata rinuncia ad un eventuale legato sostitutivo (articolo 551 c.c.) che rappresenta un mezzo tipico di tacitazione della quota riservata.
Se il legislatore avesse optato per la nullità delle disposizioni lesive, la volontà del testatore sarebbe, sempre, venuta meno. Non vi sarebbero stati spazi per conservarla. Neppure nei casi nei quali il legittimario pretermesso o leso, condividendo le ragioni del testatore o, per qualunque altro motivo, non avesse avuta l’aspirazione di conseguire più di quanto l’ereditando gli abbia concesso e se glielo abbia concesso.
La soluzione della nullità della diseredazione non permetterebbe al legittimario di rinunziare, anche verso corrispettivo, all’azione di riduzione, dovendo semmai rinunciare all’eredità (e compiendo un atto di accettazione tacita se verso corrispettivo). Tale sanzione, infatti, finisce con il collocare il medesimo nella posizione di chiamato alla eredità.
Affermare che anche la diseredazione del legittimario sia valida ed efficace disposizione testamentaria, non significa che le norme a tutela dei legittimari non siano rispettate e che, conseguentemente, l’art. 457, 3 co., c.c. sia violato.
Tale norma stabilisce che le disposizioni testamentarie non possono pregiudicare i diritti che la legge riserva ai legittimari.
I «diritti che la legge riserva ai legittimari» si sostanziano nell’azione di riduzione che non può essere mai esclusa dal testatore se non col consenso del legittimario (legato privativo di cui all’articolo, 551 c.c.).
È in ciò che si sostanzia la differenza tra diseredazione e indegnità a succedere.
A sostegno della nullità della disposizione diseredativa si è detto che le ipotesi di esclusione dalla successione sono tassative e si sostanziano nelle cause di indegnità legislativamente previste.
Non sarebbe possibile per il testatore creare ulteriori ipotesi che si fondino non su cause socialmente rilevanti ma personalmente ed egoisticamente tali.
Anche ad accogliere tale riflessione, non si mette a sufficienza in luce la diversità che corre tra diseredazione e indegnità.
L’indegnità, ed essa soltanto, è causa di esclusione dalla successione che esclude qualunque tutela per l’indegno, anche quando questo sia un legittimario.
Tale forza non ha certo la diseredazione che, come detto, è una regolamentazione dell’assetto successorio che non priva il legittimario dell’azione di riduzione ovvero del diritto alla quota.
Perché, altro è la quota, altro il diritto alla quota.
Con la diseredazione il testatore dispone della sua successione privando un erede legittimo della sua quota, con la indegnità il legislatore priva un soggetto del diritto alla quota altrimenti spettante.
Solo quando la diseredazione è prevista dal legislatore (articolo 448-bis c.c.,) quale ipotesi tipica di diseredazione di un legittimario, la stessa si concreterà in un’ipotesi di esclusione dal diritto alla quota.
Tale esclusione differisce appunto dalla diseredazione perché è assimilata ad un’ipotesi di indegnità: si toglie al legittimario (genitore) la tutela dell’azione di riduzione.
Ciò senza tralasciare di considerare che, nel caso di indegnità e in quello di diseredazione, il testamento assolve funzioni opposte e contrarie tra loro. Nell’un caso, serve per includere chi la legge esclude, mentre, nell’altro, a escludere chi la legge include.
È, dunque, nell’azione di riduzione che si sostanzia l’insopprimibile diritto che la legge riserva ai legittimari
Diritto che non può essere negato al legittimario senza il suo consenso (anche implicito come nell’ipotesi dell’art. 551 cc) e che detta la differenza tra diseredazione di un legittimario e quella di un erede legittimo.
Un parente diseredato non ha alcun mezzo a sua disposizione per recuperare la quota ereditaria che la legge gli avrebbe offerto quale erede legittimo, mentre se sia legittimario ha la tutela dell’azione di riduzione, che gli garantisce, anche contro la volontà del testatore, un netto patrimoniale ma, per i più recenti orientamenti, non la qualità di erede. Pertanto, se il potenziale erede legittimo non può che far altro che tentare, sull’onda della storica, ma, come si è visto, superata giurisprudenza di legittimità, di far dichiarare la nullità della disposizione testamentaria, sol perché meramente diseredativa, il legittimario che voglia succedere e che sia stato diseredato, può, proprio come il pretermesso, agire in riduzione.
Se, davvero, la diseredazione del legittimario fosse nulla, ciò starebbe a significare, per un verso, che l’autonomia testamentaria sarebbe compromessa e la volontà del testatore irrimediabilmente sciupata e perduta e, per altro verso, che il legittimario diseredato si troverebbe nella impossibilità, qualora, consapevolmente, condividesse o volesse condividere, la scelta fatta dal testatore di rimanere, automaticamente, estraneo alla successione. Dacché, la nullità della diseredazione, lo renderebbe erede e gli imporrebbe, per l’ipotesi in cui non volesse succedere, di rinunziare all’eredità.
Assai più coerente e semplice ipotizzare, che la disposizione di diseredazione del legittimario non sia nulla, ma valida ed efficace, salva la possibilità, per il legittimario diseredato, ossia espressamente e inequivocamente pretermesso dal testatore, di agire con l’azione di riduzione.
A mio avviso rimarrebbe da valutare il piano della meritevolezza di tutela di una clausola di diseredazione sic et simpliciter del legittimario.
Mi spiego: quali interessi meritevoli di tutela perseguirebbe una simile clausola se è la legge stessa ad attribuire al legittimario il diritto ad una “quota di eredità” del de cuius? Non basterebbe certo a fondare il giudizio di meritevolezza il tralaticio richiamo all’autonomia testamentaria, atteso che è proprio la legge in questa materia a comprimere la ridetta autonomia.
Diversa è l’ipotesi di una clausola di diseredazione dell’erede legittimato nel n legittimario, al quale la legge non riconosce alcun diritto ad una quota di eredità del defunto, per cui l’autonomia del testatore, in tale ipotesi, non incontra limiti di esplicazione.