Il diritto di prelazione è il diritto di essere preferiti a parità di condizioni nella stipulazione di un determinato contratto. La concessione di tale diritto può trovare fonte nella legge o nella volontà dei privati. Quando questa è trasfusa in uno statuto societario scaturiscono due obbligazioni a carico del socio che intende alienare la propria partecipazione: una di carattere positivo o di fare (la c.d. denuntiatio) ed una di carattere negativo o di non fare (il divieto, a carico del promittente, di stipulare il contratto con soggetti diversi dal prelazionario senza averlo prima informato o, avendolo interpellato, senza averne atteso la risposta nel termine all’uopo fissato).
E’ nel senso sopra detto che una clausola di prelazione costituisce un limite alla circolazione della partecipazione, anche se più che limite alla facoltà di disposizione pare regolamento della medesima, in quanto:
“Il contratto di prelazione non impegna il promittente a concludere il contratto, bensì a preferire il prelazionario, se e quando si determinerà a concluderlo.” (C.A. Busi- La prelazione societaria)
Le brevi considerazioni sopra portate riguardano la c.d. “prelazione propria“, connotata dalla parità di condizioni: queste ultime garantisco, almeno dal punto di vista economico, la completa realizzazione del risultato programmato dal socio alienante.
Le relative clausole statutarie, che pur rientrano fra quelle limitative della circolazione delle partecipazioni, non sono “direttamente” regolate nel codice civile ma sono da sempre considerate legittime.
Trib. Napoli, 25.11.2014, in Società, 2016, 482, per il quale «tra i limiti alla libera circolazione delle partecipazioni ritenuti meritevoli di tutela dal legislatore (in relazione alla volontà dei consociati di mantenere inalterata una data composizione personale della compagine) rientra appunto sicuramente la prelazione»;
così Trib. Napoli, 17.3.2004, in Foro it., 2004, 2547, secondo cui «il patto di prelazione (statutario) è consentito a norma dell’art. 1322 c.c., ove esista e finché esista un interesse meritevole di tutela, perché non costituisce un ostacolo assoluto alla disposizione ed alla circolazione dei beni, ma si limita a mutare indirizzo alla disposizione, che avviene in favore del prelazionario, invece che a favore del terzo».
Interesse meritevole di tutela sia dal lato della società e dei soci, ai quali è dato modo di mantenere l’attuale assetto proprietario e amministrativo, evitando l’ingresso a terzi non graditi, sia dal lato del socio cedente, il quale, come detto, può comunque realizzare il valore monetario della relativa partecipazione, essendo per lui generalmente indifferente chi dovrà corrispondere detto valore.
Quale conseguenza in caso di mancato rispetto del diritto di prelazione?
La clausola di prelazione contenuta nello statuto ha “efficacia reale”, il che non vuol dire che la stessa attribuisca ai prelazionari un diritto di riscatto della partecipazione ceduta in spregio del loro diritto e nemmeno la possibilità di agire per la tutela in forma specifica, ma che l’atto di cessione, seppur valido (Cass 7003/2015) tra le parti (salvo il risarcimento del danno, se del caso, a carico dell’alienante) sarà inefficace nei confronti della società, dei soci e dei terzi (inefficacia assoluta per Campobasso, “Diritto delle Società”, Torino, 2002 e Di Sabato, Società, Torino, 1995).
Pertanto, il terzo acquirente di una quota di SRL ceduta in spregio a detto diritto, non potrà essere considerato socio e, di conseguenza, esercitare i diritti sociali, anche se l’atto di cessione è depositato presso il registro imprese (come da Orientamento dei Notai Triveneto I.L.1).
I soci possono chiedere il risarcimento del danno subito al socio cedente (Cass n.24559/2015) e al terzo acquirente se in mala fede (Cass n. 25468/2015).
Per Cass. 23 luglio 2012 n. 12797 il socio pretermesso, che fa valere in giudizio il patto di prelazione, è tenuto a dichiarare di voler concretamente esercitare la prelazione stabilita in proprio favore e, pertanto, di acquistare la quota.
La parità di condizioni è elemento caratterizzante la prelazione?
Per gli Autori (C.A. Busi) che hanno trattato in materia specifica la questione, la parità di condizioni (tra la cessione in favore del terzo e quella che si realizza, in conseguenza dell’esercizio del diritto di prelazione, in favore del prelazionario) è elemento caratterizzante l’istituto.
La riflessione apre la trattazione relativa alla c.d. “prelazione impropria” ovvero quella che prescinde dalla parità di condizioni con riferimento al quantum del prezzo da pagare, oppure dalla natura della controprestazione o dal tipo di negozio mediante il quale trasferire la partecipazione.
Evidentemente, adottando una simile previsione statutaria, si rende prevalente l’interesse degli altri soci su quello del socio uscente.
Dunque, a seguito dell’introduzione in statuto di una “clausola di prelazione impropria”, gli altri soci avranno diritto, alternativamente o cumulativamente:
- ad acquistare la partecipazione ad un prezzo diverso da quello offerto dal terzo;
- ad acquistare la partecipazione anche quando la stessa sia ceduta a fronte di un corrispettivo infungibile (es. permuta, conferimento in società);
- ad acquistare la partecipazione anche se la stessa venga ceduta a titolo gratuito anche donativo (solo se espressamente previsto).
L’esigenza di prevedere un prezzo diverso (e, naturalmente, più basso) da quello oggetto di denunciatio (ovvero dalla comunicazione, oggetto dell’obbligazione di fare di cui si è detto, degli elementi caratterizzanti il negozio di cessione da stipularsi) è derivata da quella di garantire effettività al diritto riconosciuto in statuto in favore degli altri soci.
Si è così previsto un meccanismo di determinazione del prezzo di cessione, in favore dei prelazionari, che non tenga conto di quello oggetto di denunciatio, e ciò al fine di evitare che il socio cedente potesse eludere il diritto riconosciuto statuariamente ai altri soci attraverso una simulazione del prezzo di cessione offertogli dal terzo (ovvero indicando nella comunicazione della proposta ricevuta un prezzo maggiore all’effettivo valore della partecipazione).
Altra ipotesi di prelazione impropria, si è detto, può riguardare il campo di applicazione della stessa ovvero il negozio di alienazione che il socio intende compiere, e, dunque, le ipotesi di corrispettivo infungibile e anche le alienazioni senza corrispettivo, anche a titolo liberale.
In tutte le dette ipotesi, a seguito dell’esercizio del diritto di prelazione, il negozio tra cedente e prelazionario sarà diverso da quello programmato dal socio cedente o diverso sarà un elemento essenziale del contratto (il prezzo) e, pertanto, l’Autore conclude che non rientreremmo più nel campo del diritto di prelazione.
Condicio sine qua non della prelazione è, infatti, la fungibilità del corrispettivo.
In assenza di questo si andrebbe a configurare un problema causale del trasferimento in favore dei soggetti prelazionari. Si pensi ad una donazione della partecipazione e al relativo animus donandi che verrà certamente a mancare nei confronti del surrogato nell’acquisto (prelazionario).
Per questo motivo, il trasferimento non potrà che dipendere da un’ulteriore causa, che è quella della vendita, il cui elemento essenziale è il corrispettivo. Prezzo, dunque, che deve essere già determinabile nella clausola statutaria.
Con riferimento alla determinazione di questo prezzo “imposto” occorre rapportarsi alla disciplina legale di exit del tipo sociale prescelto.
La determinazione di un prezzo irrisorio o “vile” non può che comportare l’equiparazione della clausola o ad un divieto di cessione o ad una clausola di gradimento a “rifiuto garantito”.
Ecco che, dunque, la relativa disciplina sarà quella già vista nell’articolo relativo alle clausole di mero gradimento:
- In una s.r.l. la facoltà di disinvestimento del socio può essere compressa per un periodo di due anni, limite richiamato dall’art. 2469 c.c.. Entro tale termine il socio può vedersi costretto a cedere la propria partecipazione anche ad un prezzo irrisorio. Oltre tale limite temporale invece, se la clausola di prelazione impropria non riconosce il diritto a percepire un prezzo non inferiore a quello determinabile secondo la normativa del recesso, a tutela del socio rimane lo strumento del diritto di recesso (Studio n.158-2012/I CNN);
- in una S.P.A. lo statuto (in caso di azioni nominative o di mancata emissione di azioni) può prevedere, per un periodo non superiore a cinque anni dalla costituzione della società o dal momento in cui il divieto viene introdotto, qualsiasi limitazione alla facoltà di disinvestimento del socio, anche vietandola del tutto. Oltre il suddetto limite temporale deve prevedersi, pena la perdita di efficacia del suddetto disposto statutario, la possibilità dell’azionista di disinvestire le proprie azioni al valore di mercato o almeno ad un valore non inferiore a quello che gli spetterebbe in caso di recesso.
Dunque, scaduti i cinque anni, deve prevedersi, nel caso di prelazione impropria, che il prezzo di acquisto del prelazionario, anche se inferiore al prezzo offerto dal terzo, sia comunque almeno uguale a quello determinabile sulla base dei criteri del diritto di recesso, ex art. 2437 ter C.C.
Si segnale che, per l’orientamento del Triveneto n. H.I.22 è legittimo anche deliberare il “rinnovo del quinquiennio” (stante diritto di recesso, immediato, per i soci che non lo hanno approvato).
Quanto sopra è del tutto compatibile con principi già acquisiti, ovvero, con il divieto di alienazione di cui all’art. 1379 c.c. che deve essere contenuto entro determinati limiti di tempo (quelli indicati dalle norme con riferimento ai diversi tipi societari) e corrispondere ad un interesse del disponente (quello alla coesione della compagine sociale) e con le “clausole di consolidazione” (come di prelazione) in caso di decesso di un socio, le quali, anche per non ricadere sotto la falcidia dell’art. 458 c.c., devono prevedere la liquidazione della partecipazione in favore degli eredi.
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Si riportano le massime relative alla prelazione impropria adottate dalla Commissione del Consiglio Notarile di Milano e l’orientamento in materia del Comitato Interregionale Dei Consigli Notarili Delle Tre Venezie:
85.Limiti di efficacia della clausola di prelazione c.d. “impropria” negli statuti di s.p.a. (art. 2355-bis c.c.)
Devono ritenersi inefficaci (salvo che sia espressamente previsto il diritto di recesso) le clausole di prelazione contenute in statuti di s.p.a. che attribuiscano il diritto di esercitare la prelazione, al di là dei limiti temporali di cui all’art. 2355-bis, comma 1, c.c., per un corrispettivo, diverso da quello proposto dall’alienante, determinato con criteri tali da quantificarlo in un ammontare significativamente inferiore a quello che risulterebbe applicando i criteri di calcolo previsti in caso di recesso.
MOTIVAZIONE
La motivazione è riportata in calce alla massima n. 86
86. Clausola di prelazione c.d. “impropria” negli atti costitutivi di s.r.l. e diritto di recesso (art. 2469 c.c.)
Sono efficaci le clausole di prelazione contenute in atti costitutivi di s.r.l. che, con riferimento alla circolazione delle quote, attribuiscano il diritto di esercitare la prelazione, per un corrispettivo, diverso da quello proposto dall’alienante, determinato con criteri tali da quantificarlo in un ammontare anche significativamente inferiore a quello che risulterebbe applicando i criteri di calcolo previsti in caso di recesso. In tale ipotesi, al socio che dovrebbe subire tale decurtazione spetta, ai sensi dell’art. 2469, comma 2, c.c., il diritto di recesso.
MOTIVAZIONE
Le massime 85 e 86 prendono in considerazione quelle clausole di prelazione, inserite in statuti di s.p.a. o in atti costitutivi di s.r.l., che, nel caso in cui un socio intenda alienare, consentono agli altri soci un diritto di prelazione nell’acquisto per un corrispettivo qualitativamente e/o quantitativamente diverso da quello che il socio avrebbe potuto ottenere dal potenziale acquirente (c.d. clausole di prelazione impropria).
Si tratta di clausole diffusissime nella pratica e della cui legittimità non è possibile ragionevolmente dubitare: esse devono ritenersi comprese in quelle “particolari condizioni” a cui può essere subordinato il trasferimento di azioni nominative o di partecipazioni azionarie per le quali non si sia fatto luogo alla emissione dei titoli azionari (art. 2355-bis c.c., per le s.p.a., e art. 2469 c.c., per le s.r.l.).
Tali norme consentono, rispettivamente per un periodo di cinque anni o di due anni, la pattuizione dell’intrasferibilità di azioni o quote e quindi, nel caso di clausole di prelazione improprie aventi una durata limitata ad un periodo non superiore a questo, non sembrano potersi ravvisare limiti alla loro efficacia (per le s.p.a.) o non sembra possibile ipotizzare un diritto di recesso ex lege (per le s.r.l.).
Qualora, invece, a tali clausole non sia apposto un limite temporale, ovvero sia previsto un limite temporale più ampio, occorre valutare l’incidenza del vincolo derivante dalla clausola di prelazione impropria sulla posizione del socio che intenda alienare: può, infatti, accadere che il meccanismo di determinazione del valore porti a calcolare un corrispettivo (per l’esercizio della prelazione impropria) almeno pari a quello che si sarebbe determinato nell’ipotesi di recesso, ovvero porti ad un risultato significativamente inferiore.
Mentre nella prima ipotesi tali clausole devono ritenersi sicuramente efficaci (nelle s.p.a.) e inidonee a fondare un diritto di recesso (nelle s.r.l.), nell’altra ipotesi si ritiene che dette clausole determinino una limitazione al trasferimento sostanzialmente assimilabile ad un mero gradimento.
La ratio degli artt. 2355-bis e 2469 c.c. non vuole infatti solo porre un correttivo a clausole che impediscono al socio di cedere la sua partecipazione, ma anche a quelle che pongono al socio, che intende uscire dalla società mediante cessione della partecipazione, l’alternativa tra cedere per un corrispettivo significativamente inferiore a quello che il legislatore considera “giusto” (per intenderci, a quello previsto in caso di recesso) ovvero dovere rimanere in società senza potersi “liberare” del vincolo sociale.
In questo caso la clausola di prelazione impropria rimette alla discrezionalità degli altri soci la facoltà di porre, al socio che intenda cedere, l’alternativa tra “non cedere” o cedere a “prezzo vile”.
Il fatto che con un significativo sacrificio economico il socio possa cedere la propria partecipazione non vale a differenziare in modo giuridicamente rilevante questa clausola da quelle che subordinano la cessione di quote o di azioni al mero gradimento degli altri soci: se così non fosse, le norme qui richiamate sarebbero facilmente eludibili e in buona sostanza prive di concreta efficacia.
La differente disciplina prevista dal legislatore per le s.p.a. e per le s.r.l. porta alla conseguenza che le clausole di prelazione impropria, in cui il meccanismo di determinazione del corrispettivo porta a risultati significativamente inferiori al “prezzo del recesso”, sono inefficaci se non accompagnate dall’espressa previsione di un diritto di recesso (nel caso di s.p.a.) ovvero sono sì efficaci, ma, ex lege, attribuiscono un diritto di recesso nelle s.r.l.
Normativa: art. 2355-bis c.c.
(Massima n. H.I.16 – 1° pubbl. 9/04 elaborata dal Comitato Interregionale Dei Consigli Notarili Delle Tre Venezie)
“Le deliberazioni assembleari che introducono o rimuovono dallo statuto di srl vincoli alla circolazione delle partecipazioni non determinano il diritto di recedere, ferma restando la spettanza del diritto stesso per i casi disciplinati all’art. 2469, comma 2, c.c.”
(Massima Notarile Milano, n. 31)
E’ legittima la cd “prelazione impropria” che:
– Consente all’offerente di ritirare l’offerta se il prezzo non è soddisfacente (Massima notai Triveneto, I.I:22)
– Consente ad una pluralità di soci di fare un’offerta cumulativa (Massima notai Triveneto, I.I.20).
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