L’accrescimento è, tecnicamente, quel fenomeno giuridico che comporta l’espansione delle quote dei concorrenti in ipotesi nelle quali la partecipazione di uno di essi non si verifichi (o venga meno, per le ipotesi di accrescimento posteriore all’acquisto – es. rendita vitalizia, usufrutto congiuntivo).
Deriva dal concetto di chiamata solidale in una quota unitaria ed, in campo successorio, indica sia l’effetto devolutivo che quello incrementativo.
In ipotesi di successione regolata da testamento, il fondamento dell’istituto è tradizionalmente ravvisato nella presunta volontà del testatore, il quale, se ha disposto che la sua eredità vada divisa tra un certo numero di soggetti in parti uguali, è perché intendeva beneficiare gli istituiti allo stesso modo.
Pertanto, non potendo o non volendo uno dei chiamati accettare l’eredità, presumibilmente, la volontà dello stesso testatore si presume volta ad attribuire il suo patrimonio sempre in parti uguali fra gli istituiti che effettivamente partecipino alla successione. Parti (quote) che, allora limitate dal numero dei chiamati, vengono conseguentemente ad espandersi.
Dottrina più moderna appare più propensa a riqualificare l’effetto espansivo, non ravvisando il suo titolo in una presunta volontà del testatore (volontà che è riconosciuta prevalente solo quando la stessa sia stata espressa nel testamento) ma nel dettato legislativo, il quale dispone l’operare del fenomeno proprio ove tale volontà manchi (ovvero non vi sia previsione di una sostituzione) e non vi siano i presupposti per l’operare della rappresentazione.
L’art. 676 c.c. stabilisce che l’acquisto per accrescimento ha luogo di diritto, ex lege, con effetto retroattivo, e, in conseguenza del principio dell’unicità della delazione, non è rinunciabile negli effetti, salvo il caso in cui si rinunci all’intera eredità (si avrebbe una rinuncia parziale vietata ai sensi dell’art. 520 c.c.).
L’accrescimento trova dettagliata disciplina in ipotesi di successione testamentaria e si discute circa la possibilità che lo stesso fenomeno operi anche in ipotesi in testamento manchi.
Naturalmente, in questo ultimo caso, essendo la successione regolata dalla legge, l’effetto incrementativo comporterà anche una proporzionalmente maggiore responsabilità per i debiti ereditari ma, non essendoci stato il negozio testamentario, non il subentrare in eventuali oneri appunto “testamentari”, come invece accade in ipotesi di accrescimento ex art. 523 c.c..
In ipotesi di mancanza di testamento, nel caso uno dei chiamati per legge all’eredità vi rinunzi, quali sono le conseguenze per gli altri chiamati?
Partendo dall’assunto che in ipotesi di successione legittima non si può considerare, a differenza che in ipotesi di successione regolata da testamento, la premorienza come un’ipotesi di vacanza, in quanto il numero e l’ammontare delle quote è determinato al momento dell’apertura della successione (e non con riferimento alla volontà testamentaria), e che, quindi, l’indagine può svolgersi solo con riferimento alla rinuncia all’eredità da parte di un chiamato per legge, si faccia il seguente esempio:
in ipotesi, assai frequente, di successione legittima, ove il defunto lasci a se superstiti il coniuge e due figli, questi saranno chiamati, come già visto, nelle seguenti quote:
1/3 dell’eredità il coniuge e 2/3 dell’eredità i figli, in parti uguali e, dunque, 1/3 ciascuno.
Ma cosa succede nel caso in cui uno dei figli non possa o non voglia accettare e non operi la rappresentazione (ovvero nel caso in cui il rinunciante non abbia a sua volta figli)?
Il riferimento normativo è all’art. 522 c.c. che dispone:
“Nelle successioni legittime la parte di colui che rinunzia si accresce a coloro che avrebbero concorso col rinunziante, salvo il diritto di rappresentazione e salvo il disposto dell’ultimo comma dell’articolo 571. Se il rinunziante è solo, l’eredità si devolve a coloro ai quali spetterebbe nel caso che egli mancasse.“
Sulla base del dato letterale della norma sopra riportata, il legislatore parrebbe disporre l’operare dell’accrescimento (“si accresce“), almeno per le ipotesi di chiamata “collegiale” (quella dei figli).
Ma quello che si verifica nella successione legittima si tratta davvero di accrescimento in senso tecnico?
Parte della Dottrina ritiene di sì, e la conclusione è basata sul dato letterale utilizzato dal legislatore all’art. 522 c.c. (il termine “si accresce“) che parrebbe assumere un significato inequivocabile anche perché lo stesso termine non potrebbe assumere un significato differente nell’articolo immediatamente successivo (art. 523 c.c. che con riferimento alle successioni testamentarie dispone che: “se il testatore non ha disposto una sostituzione e se non ha luogo il diritto di rappresentazione, la parte del rinunziante si accresce ai coeredi a norma dell’articolo 674, ovvero si devolve agli eredi legittimi a norma dell’articolo 677“).
Conseguentemente, trattandosi di vero e proprio accrescimento, la rinuncia di uno dei figli comporterebbe l’automatica espansione della quota nella quale è chiamato il fratello “concorrente”: l’eredità spetterebbe per 1/3 alla madre e per 2/3 al figlio accettante (il quale non può nemmeno rifiutare l’effetto espansivo prodottosi in base al principio dell’unicità della delazione).
Ma questa non è la soluzione maggioritaria.
Per la maggioranza della dottrina il dettato letterale dell’art. 522 c.c. si riferisce all’accrescimento solo in senso descrittivo e non tecnico.
L’esclusione di operatività del fenomeno in ipotesi di successione legittima sarebbe supportata dalla “teoria tradizionale”, alla quale si è fatto cenno, che vede il fondamento dello stesso nella presunta volontà del testatore: se il de cuius non ha inteso esprimere alcuna volontà, non c’è alcun presupposto per arrivare a presunzioni, ma occorre affidarsi alla disciplina di legge e alle ipotesi di concorso dalla stessa individuate.
Dal lato tecnico, poi, occorre osservare che la successione legittima non ha carattere solidale (non vi è chiamata solidale in una quota unitaria ove il concorso di altri limita la porzione, anche nella quota, come quella spettante ai figli, nella quale gli stessi concorrono in parti uguali) ma vi è un principio, quello sancito dall’art. 521 c.c., che dispone che il rinunciante è considerato come se non fosse stato mai chiamato.
Se, dunque, mai chiamato, si avrà il ricalcolo delle quote spettanti per legge, verificandosi una diversa ipotesi di concorso fra quelle stabilite da Codice Civile (nel caso preso ad esempio, ai sensi dell’art. 581 c.c., l’eredità spetterà per metà al coniuge superstite e per l’altra metà al figlio accettante, ma, si ripete, non è così pacifico come si intenderebbe far credere).
Così anche nell’ipotesi in cui il de cuis lasci più di due figli assieme al coniuge ed uno dei figli rinunci all’eredità, la quota dei figli accettanti sarà “accresciuta” non perché questo fenomeno giuridico (l’accrescimento) tecnicamente si verifichi, ma, piuttosto, perché si determina una diversa ipotesi di concorso ai sensi dell’articolo da ultimo citato (pur essendo l’effetto il medesimo: 1/3 al coniuge e 2/3 ai figli accettanti).
Unica ipotesi nella quale la rinuncia all’eredità non sembra, a prima vista, avere l’efficacia di eliminare ogni effetto alla chiamata è quando a rinunciare sia tutta la prole (il figlio o, se più di uno, tutti i figli chiamati per legge assieme al coniuge, seguendo l’esempio che si è sopra fatto): in questo caso, infatti, è pur sempre esclusa un’ipotesi di concorso dei genitori del de cuius con il coniuge accettante, il quale sarà unico erede.
Non si applicherà, in detta ultima ipotesi, il disposto di cui all’art. 582 c.c. (che dispone che in caso in cui concorrano all’eredità il coniuge e i genitori le quote siano, rispettivamente, di 2/3 ed 1/3 in parti uguali) e ciò non tanto perché la rinuncia non abbia gli effetti di cui all’art. 521 c.c. (ovvero far considerare i rinuncianti come mai chiamati) ma in forza del dato letterale dell’art. 568 c.c. il quale fa riferimento ai figli “lasciati” dal de cuius (ovvero esistenti al momento dell’apertura della successione) e non a quelli che concorrono all’eredità, disponendo espressamente che:
“A colui che muore senza lasciare prole, né fratelli o sorelle o loro discendenti, succedono il padre e la madre in eguali porzioni, o il genitore che sopravvive.”
La differenza fra accrescimento in successione testamentaria (tecnico) e in successione legittima (descrittivo) comporterà notevoli conseguenze in caso di cessione di quota di eredità:
- nel caso di successione legittima, accogliendo la ricostruzione di cui sopra, non vi è dubbio che la quota ceduta sia quella che risulta dopo l’intervenuta rinuncia, essendo la conseguenza di questa un ricalcolo e, solo indirettamente, un incremento;
- più discussa, invece, la conseguenza dell’accrescimento in caso cessione di quota devoluta per testamento: parte della dottrina, infatti, ha rilevato che l’accrescimento opera solo in favore del coerede e non del cessionario della quota nella precedente consistenza e ciò non scalfirebbe in nessun modo il principio di unicità della delazione.
La rinuncia ad agire in riduzione da parte del legittimario leso o pretermesso
Per quanto attiene alla diversa ipotesi nella quale la rinuncia sia diretta non alla quota spettante per legge ma “alla quota di riserva” (sia detta rinuncia conseguente al mancato esperimento dell’azione di riduzione per rinuncia o prescrizione), per la determinazione della quota riservata agli altri successibili, si rinvia al relativo nostro articolo, dando qui atto che la giurisprudenza recente si è unanimemente attestata sulla c.d. tesi della “cristallizzazione” fatta propria dalle Sezioni Unite nel 2006, secondo la quale:
«in tema di successione necessaria, l’individuazione della quota di riserva spettante alle singole categorie di legittimari ed ai singoli legittimari appartenenti alla medesima categoria va effettuata sulla base della situazione esistente al momento dell’apertura della successione e non di quella che si viene a determinare per effetto del mancato esperimento, per rinunzia o per prescrizione, dell’azione di riduzione da parte di qualcuno dei legittimari» (Cass. civ., Sez. Un., 9 giugno 2006, n. 13429; Cass. civ., Sez. Un., 12 giugno 2006, n. 13524; Cass. civ., 17 giugno 2011, n. 13385; Cass. civ., 16 novembre 2017, n. 27259; App. Catania, 28 febbraio 2020).
ottimo commento sul problema dell’azione di riduzione